Magistrati: indipendenza o privilegio?

Selective focus shot of a statue of justice holding scales

Lo scontro tra la politica e la magistratura, o meglio, la loro associazione, ha assunto connotati di tifo da stadio. L’elettore simpatizzante con il Governo intravvede un’attenzione “particolare” nel colpire la politica dell’esecutivo e i suoi ministri personalmente. Chi simpatizza per l’opposizione, invece, parla di attacco alla Costituzione, alla indipendenza della magistratura e alla richiesta di impunità da parte dei membri del governo.

Ma sollevandoci sopra la contesa e sfuggendo agli slogan e ai cliché utilizzati da entrambe le tifoserie, è necessaria un’analisi oggettiva e seria – basata sui dati e non sulle sensazioni – dello stato della giustizia italiana, soprattutto quella penale.

Il pubblico ministero con carriere separate e dipendente dal Governo è sempre sinonimo di una perdita di indipendenza? In realtà, no. Se guardiamo all’Europa – tutti paesi che di sicuro riconosciamo con una magistratura indipendente e spesso più solida di quella nostrana – notiamo che nella maggioranza dei casi i PM sono legati al Governo. Nel Regno Unito e in Irlanda, ad esempio, i PM sono di diretta nomina governativa. Ma anche in Francia, Germania, Belgio, Austria, Svezia, Danimarca e altri paesi, i PM ricevono istruzioni dal governo.

In Francia, ad esempio, il Ministro della Giustizia fornisce direttive generali ai pubblici ministeri, indicando quali reati debbano avere priorità e come organizzare al meglio il servizio. In Germania, i procuratori dipendono direttamente dal Ministero della Giustizia, alla stregua di qualsiasi altro dipendente pubblico.

Perché in questi paesi i PM non sono considerati come “asserviti al potere” o meno indipendenti di quelli italiani? La risposta è semplice: in una democrazia, un governo è sempre sotto controllo pubblico e risponde quotidianamente, sui giornali e in televisione, delle proprie azioni. Un ministro della Giustizia tedesco che telefonasse al pubblico ministero, suo dipendente, che sta indagando magari su un suo parente, sarebbe immediatamente linciato la sera stessa sui social, sui giornali e in televisione.

Pertanto, in una democrazia matura come l’Italia, non vi è alcun rischio nel porre i pubblici ministeri sotto il controllo del Governo, come avviene in due terzi del mondo occidentale.

È chiaro che il costituente italiano, nella fragile democrazia che stava nascendo, abbia preferito esagerare con i poteri dei pubblici ministeri, valutando, probabilmente, che il rischio di abuso da parte di singoli PM fosse meno grave rispetto al pericolo che un governo in carica potesse sopprimere l’autonomia della magistratura. Una paura fondata, che abbiamo visto concretizzarsi in alcuni paesi, come l’Ungheria, una giovane democrazia che non ha raggiunto la sua piena maturità.

Ma dopo quasi un secolo, con il rischio di ingerenza governativa ormai ampiamente ridimensionato, è rimasto inalterato il pericolo degli abusi da parte dei singoli PM. Non può esistere, infatti, un potere che non sia soggetto a responsabilità. Un potere senza controllo rischia di trasformarsi in uno strapotere.

E non si dica che esiste una vera responsabilità disciplinare dei magistrati. Il procedimento disciplinare del CSM è, in realtà, un simulacro, una foglia di fico. Solo 7 provvedimenti disciplinari più gravi della censura in tutta Italia su 10.000 magistrati. Lo 0,07%! O siamo davanti a una categoria di superuomini, privi di interessi personali, parentele, ambizioni di carriera, gelosie, vendette, bisogno di visibilità e riconoscimenti, oppure siamo davanti a un sistema di controllo inefficace, una foglia di fico che cela, ma non corregge, gli squilibri del nostro ordinamento giudiziario.

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